La Sardegna dal mare turchino: industria, turismo, ambiente… Un equilibrio complesso, delicato, una discussione che parte da lontano. Vale la pena – anche a distanza di anni – citare un intervento del preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Cagliari Maxia a un convegno organizzato dall’associazione ambientalista Italia Nostra.

Maxia lancia un grido d’allarme: «Siamo nel 1973, in piena civiltà tecnologica, nell’era della conquista della luna; le scorrerie dei cartaginesi e dei pirati medioevali sono niente più che lontanissimi episodi […] ma dal mare stanno giungendo, su quest’isola tanto bella quanto tormentata, altri flagelli, certo meno crudeli delle razzie di un tempo, ma non meno micidiali».

I tre «flagelli» moderni – peraltro «blanditi, chiamati, vezzeggiati dai responsabili politici sardi» – sono la petrolchimica, il turismo d’élite e le servitù militari. «Colossali impianti industriali che hanno richiesto investimenti giganteschi e deturpano la natura sono rimasti cattedrali nel deserto». Imprevidenza politica e giochi di potere fra partiti hanno privilegiato impostazioni tecnico-industriali che, seppur nei piani iniziali sembrassero valide economicamente – con risultati ben diversi da quelli previsti – erano chiaramente errate per l’habitat circostante.

Nel resoconto del convegno, il giornalista del “Corriere della Sera” conclude con la domanda se alle condizioni ecologicamente pure, ma «da età del bronzo», di tanti pastori sardi fosse preferibile «lo smog o l’inquinamento di Milano». A quali condizioni, ci si chiedeva in quegli anni, si può trovare «una via per uscire dall’età del bronzo e avere un po’ di benessere moderno senza avvelenarsi e distruggere cultura e tradizioni?».

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